Ad aprire la prima giornata i Nothing But Thieves, piacevole sorpresa inglese: le doti tecniche sono indiscutibili e la loro musica alternativa è la giusta via di mezzo tra evoluzione elettronica e tradizione rockettara. Si parte con la nuova hit Welcome to the DCC e il pubblico è subito conquistato. Impossibile non ballare, nonostante il sole ancora impietoso e nessuno smetterà fino ai due bis Everybody Going Crazy e Amsterdam. Conor Mason, oltre ad una voce decisamente interessante, mette in scena una buona performance, anche se le sue doti da frontman sono ancora da affinare rispetto ad artisti più navigati.
Seguono i Black Keys. Appena saliti sul palco, i nostri adorati Dan Auerbach e Patrick Carney sembrano un po’ appesantiti dagli anni, rispetto a quell’ormai lontano concerto a Capannelle, ma l’impressione svanisce alle prime note. La scaletta ripercorre le tappe della loro musica, proponendo successi vecchi (Your Touch, Fever, Gold on the Ceiling, Howlin’ for You) e nuovi, tra blues delle origini (I Got Mine su tutte) e rock prepotente, che coinvolge e travolge. Dan traina con i suoi riff e si prende la scena con qualche assolo ben strutturato; Patrick segue, dando l’idea di chi ha perso forse un po’ di energia, ma sicuramente né ritmo, né smalto. Si chiude con una magistrale Little Black Submarine e l’irrinunciabile Lonely Boy.
Dopo una lunga pausa, durante la quale finalmente cala il buio, si accendono una luna maestosa e la stella di Liam Gallagher. Già dall’introduzione, con gli altoparlanti che sparano i cori dei tifosi del Manchester City campione d’Europa, sugli schermi un video celebrativo del frontman inglese, emerge chiaro il tema portante della serata: Manchester e Liam Gallagher. Tra sfottò calcistici e dediche bizzarre, l’ego dell’ex Oasis fagocita, band, scaletta e pubblico adorante, cibandosi dei ripetuti cori provenienti da sotto il palco. Con un repertorio come il suo è difficile fare brutta figura, e infatti Gallagher non delude le aspettative, dando vita a un concerto decisamente rock, aperto da una straordinaria Morning Glory e chiuso cantando con tutto lo stadio (l’ippodromo…) Wonderwall e Champaign Supernova.
Il secondo giorno, un po’ provati, abbiamo deciso di rinunciare a Studio Murena e Primal Scream e, ci siamo goduti una grande esibizione degli Skunk Anansie, capitanati da una formidabile Skin, che ci aveva lasciato senza fiato all’Auditorium un anno fa. L’arena rende però maggiormente giustizia all’energia e alla qualità del suono e brani come Because of You, Hedonism, God Loves Only You sono perfetti per esaltare la potenza della voce di Skin e la band si fa amare anche da chi li conosceva meno. Fino all’apoteosi di un’esplosiva Tear the Place Up.
L’atto conclusivo spetta, giustamente, ai Red Hot Chili Peppers: grandissimi musicisti e strepitosi animali da palcoscenico. La voce di Anthony Kiedis, Flea al basso, Chad Smith alla batteria e un super John Frusciante alla chitarra (in alcuni assolo, ha suonato la stratocaster che fu di Jimi Hendrix!) hanno dato vita ad un’unica meravigliosa jam rock e funk di un’ora e mezza, tra le perle di Scar Tissue, Snow (Hey Oh), Black Summer, Californication,chiusa addirittura in crescendo con una formidabile interpretazione di Give It Away. Si prendono i lunghi, meritatissimi applausi dei 70mila dell’ippodromo, venuti soprattutto per loro e travolti da uno spettacolo musicale di primo livello. Anche per chi, come noi due, non li mette proprio in cima alla lista, i Red Hot Chili Peppers si sono confermati come artisti di un’altra categoria, soprattutto per l’impressione che (al netto di un John Frusciante apparso a tratti un po’ svogliato… ma quando ci si metteva…) si divertano da matti a fare quello che fanno sul palco.
E noi con loro!
Luca e Paolo Ricci (foto, nel bene e nel male, degli autori)